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  • Quando il cibo incontra la cultura

    Nel  discorso sulla diseguaglianza del 1755, Jean-Jacques Rousseau affermava: “La natura da sola compie tutte le operazioni della bestia, mentre l’uomo partecipa alle sue in qualità di agente libero.

    La prima sceglie o scarta per istinto e l’altro mediante un atto di libertà, il che fa sì che la bestia non possa deviare dalla regola che le è prescritta anche quando le sarebbe di vantaggio il farlo, mentre l’uomo ne devia spesso a suo danno.

    Così un piccione morirebbe di fame vicino a un vassoio pieno delle migliori carni, e un gatto vicino a dei mucchi di frutta o di grano, sebbene entrambi potrebbero benissimo nutrirsi di quell’alimento che disdegnano; e così invece gli uomini dissoluti si abbandonano a degli eccessi che causano loro la febbre e la morte, perché l’intelligenza corrompe i sensi e la volontà parla anche quando la natura tace”.

    A prescindere dalla capacità dei piccioni di essere carnivori e dei gatti di mangiar grano, rileva

    notare che, per Rousseau, l’alimentazione umana non è fatto “naturale”, che determini la capacità dell’uomo di essere ciò che è, in quanto condizione di esistenza e sopravvivenza, da contrapporre a un mondo dello spirito incondizionato (secondo ciò che è implicito nel

    materialismo “ingenuo” di Feuerbach, citando stavolta un Marx più maturo e critico).

    Ciò che Rousseau affermava fondamentalmente  un concetto ancora molto attuale e moderno e cioè un principio secondo il quale sono volontà e desiderio a guidare l’approccio umano al cibo; due categorie tutt’altro che “naturali”, tant’è vero che possono produrre danni all’uomo, invece di garantirne la sopravvivenza in armonia con le proprie condizioni di esistenza

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